Dal 25 Marzo al 21 Luglio La Centrale Électrique di Bruxelles ospita la prima mostra monografica della controversa e sorprendente artista sudafricana Jane Alexander, dal titolo Security (Surveys from the Cape of Good Hope). L’esposizione di Bruxelles anticipa la presentazione delle opere dell’artista al Museum for Africa Art di New York il prossimo inverno ed esibisce installazioni, fotomontaggi e video sul tema – centrale nell’opera di Alexander – del Sud Africa post-coloniale.
Più volte il confine uomo-bestia è stato esplorato nell’arte e nella mitologia di tutto il mondo, dalla preistoria ad oggi. Nel caso di Alexander le figure umanoidi – “humanimals”, come li chiama il curatore Pep Subirós citando un neologismo di Julie McGee – si fanno portatrici del messaggio di un’evoluzione tutt’altro che compiuta e matura, ma ancora in corso – “humans-in-the-making” -, nella quale l’uomo all’occorrenza torna a perseguire i propri più brutali impulsi animali e in cui la corsa al “progresso” rischia di lasciare indietro l’individuo, sedimentando modi di sussistenza e sopravvivenza – come nell’opera Bom Boys, 1998. L’opera dell’artista è quindi una talvolta cruda ed esplicita denuncia del passato e del presente post-coloniale del Sud Africa.
Nata a Johannesburg nel 1959, Jane Alexander vive e lavora a Cape Town. Sin dagli esordi negli anni ’80, quando il Sud Africa era ancora sotto il regime dell’apartheid, l’artista è stata sensibile a tematiche socio-politiche e alle forme e strutture dell’esercizio del potere, dell’oppressione e del controllo, da quelle più manifeste a quelle più subdole. Nell’opera di Alexander, l’esplorazione artistica di una tematica profondamente universale si diparte dal livello dell’individuo e delle sue molteplici sfaccettature.
L’universo di uomini-animali dell’artista esemplifica la gamma di motivazioni che guidano l’agire umano – in particolare nel caso dell’esercizio dell’oppressione – e che vanno dalla razionalità all’istinto, ricollocando appunto l’uomo all’interno del mondo animale.
Nonostante la matrice locale dei temi alla base del lavoro dell’artista – l’apartheid, il cambiamento sociale e politico post-coloniale e la presunta democratizzazione, le nuove forme di razzismo e i pregiudizi a base razziale, la normalizzazione dell’ingiustizia sociale – l’opera prevarica il localismo tematico per sfociare in una riflessione universale sulla crescente ossessione globale per la sicurezza e nuove forme di oppressione ed isolamento di gruppi etnici e minoranze.
Le figure umanoidi trasmettono un senso di spersonalizzazione e annichilimento: il corpo umano dalla testa di cane, di scimmia, di uccello o di coniglio, la statura talvolta quasi umana, a volte coperte da cappucci, a volte nude o vestite di abiti “trouvé”, gli sguardi vitrei persi nel vuoto, sembrano quasi la materializzazione iper-realistica di un onirico subconscio. E incarnano appunto la proiezione di ciò che vogliamo – o meglio, siamo inconsciamente spinti a – vedere. Come ha affermato l’artista in Notes on African adventure and other details *
“the viewer is entitled to and does project her or his own interpretation onto the work without explicatory mediation from me other than via a series of recognized or unrecognized keys embedded in or surrounding the presentation of the figure: the title and accompanying caption, sometimes the site, and the elements included in the installation or tableau.”
Il tableau African Adventure è un’installazione site-specific che combina umanoidi e vari oggetti quali machete, falci, trattori giocattolo, scatole di munizioni, diamanti, oro ed oggetti ed abiti trovati. L’artista ha dichiarato che l’opera nasce da dieci anni di osservazione dell’apartheid e delle contraddizioni osservate a Long Street a Cape Town:
“it shifted from the closed South African scenario of old-times hotels and bars, Group Areas transgressions, children living on the street, and Victorian architecture housing warrens of illicit drug and sex dealers […] to a gentrified concentration of tourist centres, backpacking residences and recreational clubs mixed with the “protection”, the drug and newly legal sex trades, illegal immigrants and refugees from across the continent.”
Il tema della sicurezza nell’opera dell’artista scaturisce dalla presenza in Sud Africa di un alto livello di controllo su spazi pubblici e privati, con allarmi, telecamere, aree protette da filo spinato, guardie di sicurezza private e la diffusione di armi legali ed illegali. Troviamo quindi spesso nell’opera figure di custodi o di guardiani, una recinzione con filo spinato o inquietanti figure appollaiate che ci osservano dall’alto. Un custode ad esempio osserva la sala dell’esposizione seduto su una sedia in un angolo, quasi a scimmiottare i reali custodi della mostra e a ricordarci che controllo e sicurezza sono proprio li, intorno a noi.
Come la stessa artista ha dichiarato in “Notes”, l’arte africana è sempre stata al centro di un mercato e di una cultura caratterizzati dal “gusto per l’esotico”. Questo ha influenzato gli artisti africani ed ha esercitato una sorta di controllo sulla loro arte. Anche per questo motivo Alexander stupisce, perché in lei troviamo un’arte che parla dell’Africa attraverso un linguaggio artistico universale ed estremamente contemporaneo, liberato – nel bene o nel male – di un marchio culturale reso stereotipo dalla commercializzazione.
Al di la comunque di tutta la serie di significati ed interpretazioni a cui la varietà di simboli presenti nell’opera si presta, l’opera di Alexander rimane ermetica, o meglio, aperta. L’artista stessa ci ricorda che
“in the end what I intended […] is not important.
[…] There is no fixed meaning.”
* In Jane Alexander. Surveys (from the Cape of Good Hope). Edited by Pep Subirós. Actar, Barcelona, and Museum for African Art, New York 2011.
Photos: courtesy of La Centrale Électrique
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